martedì 27 marzo 2012

Diamo a Cesare quel che è di Cesare, e agli industriali quel che è degli industriali.


Gli industriali e la Banca d’Italia fanno notare che il paese è arrivato a questa crisi, a differenza degli altri paesi avanzati, dopo poco più di un decennio di stagnazione a causa del progressivo calo di produttività. Il problema è che si dimenticano di dire che il calo della produttività e la crescita della precarizzazione del lavoro derivano dalle ricette che negli ultimi 20-30 anni loro hanno imposto alla collettività.
Negli anni ’70, grazie alle lotte operaie si registrava un buon recupero salariale che costringeva, in risposta a quel maggiore esborso, gli industriali ad aumentare gli investimenti. Questo comportava che la produttività italiana era la più alta (+6,8%) tra quella delle prime sei economie industrializzate. Negli anni ’90 è la più bassa (+2,1%), e negli anni 2000 diventa addirittura di segno negativi (- 0,2%) facendo così in modo che dopo ogni crisi l’Italia ripartisse più lentamente. Ma cosa è successo in questi anni? Una delle ragioni del rallentamento della crescita del PIL (prodotto interno lordo) è stata la compressione dei salari, una modalità classica di risposta del capitale per compensare la caduta del profitto che però ha portato alla riduzione della crescita della produttività. Mentre negli anni ’80 si era reagito alla crescente disoccupazione con lo sviluppo del welfare (stato sociale), a partire dagli anni ’90 è prevalsa l’impostazione secondo cui la liberazzizione del mercato del lavoro fosse la risposta migliore alla disoccupazione, creando così un aumento dell’offerta di lavoro a prezzo più basso. Di conseguenza, come accade sempre in questi casi è venuta meno la spinta industriale agli investimenti in innovazione e tecnologia, arrivando alla conseguenza (non voluta) di deprimere la produttività totale e affidandosi all’aumento della produttività del solo fattore lavoro che è cresciuta grazie al fatto che le ore effettivamente lavorate per addetto in Italia sono divenute annualmente 150 in più della media europea (dati OCSE 2007). La deregolamentazione è stata di intensità superiore in Spagna e soprattutto in Italia dove il codice OCSE di protezione del lavoro (EPL) è passato tra il 1996 e 2001, da superiore a molto al di sotto di quello di Germania e Francia. L' Italia tra l’altro, durante gli anni 80 e 90 non solo ha precarizzato il lavoro, ma è stata una delle prime ad introdurre l’organizzazione toyotista del lavoro, fondata sul subappalto, che ha accentuato il nanismo delle imprese e quindi la riduzione sia dei salari che degli investimenti di capitale e di innovazione.
Quando cala la redditività e quindi il profitto si accentua un fenomeno tipico delle economie capitalistiche: prevale l’esportazione di capitale (lavoro) rispetto all’esportazione di merci. Una quota sempre maggiore di investimenti produttivi è stata dirottata verso paesi che potevano garantire un profitto più alto come l’America Latina, l’Europa orientale e Asia orientale. Per le multinazionali italiane il costo del lavoro in Brasile è il 42% di quello sostenuto in Italia, in Romania il 13% e in Cina il 7%. Il misuratore degli investimenti diretti all’estero (IDE) è passato dai 60,2 miliardi di dollari del 1990 ai 578,2 del 2009 mentre nel medesimo periodo di tempo la quota di beni e servizi esportata è passata dal 19,1% al 29,1%. In Italia le esportazioni di capitale sono oramai il doppio rispetto alle importazioni di capitale. Il settore della produzione manifatturiera si è spostata nei paesi emergenti. Questi detengono più della metà delle esportazioni mondiali e producono il 38% del PIL mondiale ma soprattutto hanno pesato per i tre quarti della crescita del PIL mondiale. Lo spostamento della produzione in questi luoghi ha ridotto gli investimenti in Italia, ha ridotto l’occupazione (base produttiva), il PIL, le entrate fiscali ed ha aumentato il debito commerciale con l’estero (maggiori importazioni contro minori esportazioni). Questo meccanismo incide sull’aumento in percentuale del debito pubblico sul PIL non solo perché deprime la crescita del denominatore, cioè il PIL, e quindi del gettito fiscale, ma perché, spingendo la domanda pubblica a compensare la riduzione di quella privata, aumenta il numeratore, cioè le dimensioni assolute del debito.
L’Italia, che è il secondo esportatore e la seconda potenza manifatturiera europea, dopo aver visto per diversi anni ridursi il proprio surplus, presenta un debito commerciale sempre più ampio (- 50,7 miliardi ad agosto) segno del manifestarsi, con la crisi, delle conseguenze dei fattori negativi prima citati (riduzione della produttività, nanismo e privatizzazioni). Questo vale per tutti tranne che per la Germania che con l’abolizione delle monete nazionali nell’area euro ha visto la sua industria sfruttare la maggiore competitività dovuta alla più alta produttività. Gli altri paesi europei non potendo contare più sulla svalutazione della propria moneta ci rimettono sul mercato interno e perdono anche sulle esportazioni extra UE grazie all’euro forte. Inoltre la massiccia liquidità iniettata nell’economia mondiale dopo la crisi del 2001 e la bolla immobiliare hanno incrementato le importazioni, favorendo l’aumento dell’indebitamento delle famiglie europee, soprattutto con il sistema bancario tedesco. La conseguenza è stata la crescita del debito commerciale con l’estero in Spagna, Grecia, Portogallo ecc. Questo ha retto fino alla crisi dei subprimes americani. A questo punto, le banche europee, piene dei debiti delle famiglie europee, hanno rischiato di fallire, e gli stati, assorbendo il debito per evitare il loro fallimento, hanno rigonfiato il debito sovrano. Il problema è che il sistema euro da una parte, favorisce la creazione dei debiti sovrani e commerciali, dall’altra parte non permette di affrontarli con decisione perché la Banca Centrale Europea (BCE) che sostituisce le banche centrali dei singoli stati, per statuto a differenza della FED americana, ha come obiettivo primario non il sostegno alla crescita ma la stabilità monetaria, che si traduce in alti tassi d’interesse e attenzione prioritaria all’inflazione. Di conseguenza anche il costo del finanziamento del debito rimane alto e, non potendo prestare soldi agli stati comprando in prima istanza i titoli degli stati membri, lascia questi ultimi nelle mani degli speculatori. E’ evidente che un debito pubblico in mani estere e non della banca centrale è soggetto a disinvestimenti e quindi all’innalzamento dei rendimenti e a difficoltà di rifinanziamento.
Se a questo aggiungiamo che l’Italia è il paese con la maggiore evasione fiscale, che in Italia un opera pubblica viene a costare anche sei volte più di quello che costerebbe in Germania o Francia perché sopra ci devono mangiare gli amici degli amici. Se la corruzione (dove ricordatevi esistono i corrotti ma anche i corruttori) anche dopo mani pulite è proseguita imperterrita, trovate ancora qualcuno disposto a credere che l’Italia è in queste condizioni perché gli operai ed i pensionati andati in pensione dopo 35 anni di lavoro pagando tutto (zero possibilità di evadere), che hanno vissuto per anni al di sopra delle loro possibilità ed ora bisogna togliere loro diritti e salario?
                                                                                                                 P. P.

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