sabato 16 gennaio 2010

UN "MAESTRO"

Il professor S. era un ometto dagli occhi verdi, piuttosto basso e corpulento, con un grigia raggiera di capelli fra le tempie e la nuca. Portava sempre giacche fuori moda. Tre volte la settimana, dalle nove alle tredici avevamo con lui quattro ore di italiano, storia e geografia. Il professor S. era un brav'uomo, un onesto insegnante, e ci amava sinceramente. Nulla, in tanto tempo, aveva mai alterato la sua fondamentale bontà; e per quanto la sua vita trascorresse in maniera monotona, grigia, destreggiandosi tra cruente battaglie, ove si fronteggiavano due antichi ed irriducibili nemici: il professor S. e lo stipendio.
Non era un segreto per nessuno che il professor S. aveva alle spalle un nutrita schiera di figli, una moglie ammalata, e pane con infrequente companatico. Tutti sapevano pure, che il professore, anziché naufragare nell'accogliente porto di una casa tranquilla, veleggiava di lezione privata in lezione privata, trascinandosi dietro, fino a sera, irrequiete torme di galli, puni, teucri, eccettera.
Quando la sirena suonava mezzogiorno, lui diceva: “è ora della ricreazione, potete andare”, poi tirava fuori dalla borsa un panino con dentro una fettina di mortadella sottilissima e mezza mela. Così denutrendosi dalle dodici alle dodici e cinque, condiva il tutto con ampie raffiche di sigaro, che non abbandonava nemmeno in quei mangerecci frangenti della sua giornata.
Ma tanti anni son passati; il mio vecchio istituto per periti commerciali (ragionieri), è ormai logoro, abbandonato, quasi cadente, e se qualche volta mi capita di passare da quelle parti giro al largo, per paura che esso mi risorga dinanzi e mi chieda conto di come male ho impiegato la mia esistenza. E dinanzi ai tremendi, cari retori del passato mi manca sempre il fiato, mai so che cosa opporre, mi sento in colpa e a disagio.
Niente di più imprevedibile dell'apparizione che ieri mi è sorta per la strada, mentre camminavo lungo la via Etnea a Catania. E niente di più tenero, insieme.
Ci siamo riconosciuti subito, io e il rattrappito vecchietto, che mi è saltato al collo, mi ha baciato sulle guance.
“Sei ancora vivo, grazie a Dio, sei ancora vivo”, dice il professore S., fra patetiche lacrime.
“Si professore siamo ancora vivi”, rettifico.
Poi mi chiede tanto della mia vita e della mia famiglia, ed io senza reticenza alcuna soddisfo la sua voglia di conoscere le cose e persone che costituiscono il mio mondo.
Alla fine torna a baciarmi sulle guance, con carità cristiana; mi dice di andarlo a trovare, e se ne va : un passo lento, strascicato, e quel fumogeno sigaro dietro, una scia densa, che ben conosco e mi riporta agli anni della mia giovinezza.

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A casa, vorrei dire ai miei figli:
“Toccate questa mano che è ancora calda della stretta d'un maestro col fumo del toscano e con le guerre peloponnesiache; in compenso insegnò a me e ad altra gente della mia generazione la quotidiana dignità di un panino vagamente imbottito con la mortadella”.
Ecco: questo e altro vorrei dire ai miei figli, ma non oso. Come peccare di un così sfacciato, antiquato e patetico deamicisismo, in un'epoca che sforna gente spregiudicata, tanti disinvolti buffoni e impostori? E poi, diciamo la verità: fra tanti autodidatti, populisti, ruffiani, arricchiti e vagamente analfabeti, quale importanza avrebbe più un ridicolo e umile “maestro” che beccava pane e mortadella.
                                                                             Rasputin

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