venerdì 4 dicembre 2009

PANTALONE PAGA



Una ridente cittadina la definì un nostro compaesano in un libretto da lui curato. Sicuramente maturò questa sua convinzione, poi tradotta in espressione letteraria, considerando l’armonica e antica struttura dell’abitato. Assai difficile è che abbia potuto formarsi un convinzione riferendosi alle condizioni di vita del passato e del presente. La nostra gente i nostri progenitori, concittadini di ieri; vissuti in un passato che sembra lontano anni luce, eppure ancora a portata di mano, perché vivo nella mente dei più anziani. Un passato dove la sopraffazione di pochi (i cavalieri o proprietari) rendeva insopportabile, opprimente e indescrivibile la fatica di vivere a molti. E’ la storia sentita e risentita, ma ormai parzialmente rimossa dalla nostra memoria. E' la storia di un paese sopraffatto da un sistema feudale di sfruttamento, tenuto in piedi fino agli anni cinquanta del secolo passato, dove in molti possedevano meno che niente: solo il duro lavoro nelle vigne dei proprietari gli consentiva di potere sopravvivere. Una realtà sociale fatta di pochi ricchi e di tanti poveri. I poveri, quelli che nei periodi di carestia erano costretti a bussare alla porta dei nobilotti per non morire di fame; quelli che per ottenere un pugno di grano dovevano dare anche ciò che avevano di più caro; quelli che erano costretti a fare lavorare i propri figli ancora bambini nelle vigne dei padroni; quelli che in inverno non avevano scarpe e usavano i zampiti procurandosi il congelamento dei piedi; quelli che avevano un bugigattolo di casa, composta da un vano al piano terra adibito a stalla e un vano al piano superiore dove ci vivevano in sette o più. Poi c’erano gli altri: i signori, per capirci i cavalieri o proprietari terrieri, i quali possedevano belle dimore, vivevano bene, i loro figli erano istruiti, avevano pure viaggiato ed alcuni già andavano in automobile.
Poi finì il fascismo, al quale i cavalieri avevano aderito con grande fervore ideologico; trasformandosi da sfegatati liberali a fascisti convinti. Arrivarono i due grandi partiti di massa la democrazia cristiana e il partito comunista e le cose incomminciarono a mutare. Perché vedete non è vero che l’agricoltura non andava più, é che quel sistema di sfruttamento non era piu praticabile, in quanto iniziava a nascere in Italia un legislazione sociale che imponeva ai padroni di trattare i lavoratori agricoli non più come bestie da soma, ma come esseri umani. Ed allora avvenne che i proprietari essendo ben ammanigliati sistemarono i loro rampolli altrove e furbescamente  vendettero i loro terreni, ormai scarsamente redditizi, agli stessi contadini, che fino allora li avevano lavorati, fottendoli per la seconda volta.
Spezzettate le grandi proprietà  e create delle unità colturali piccole era ovvio che si era ormai ad un agricoltura di mera sussistenza. Ed i figli dei contadini, divenuti piccoli proprietari, si resero conto che si poteva solo continuare a morire di fame e scelsero l’unica via possibile: l’emigrazione. Fatto per altro non nuovo per la nostra città, stante che le prime emigrazioni di massa avvennero già alla fine dell’ottocento verso le americhe. Negli anni sessanta e settanta si scelsero mete più vicine, europee: Germania, Francia e cosi via.
Le rimesse di quegli emigrati consentirono un certo sviluppo dell’edilizia privata, dal quale trasse beneficio tutta la città. Poi gli emigrati capirono l’inutilità di investire nel paese di origine, dove nessuna prospettiva di benessere si profilava per i loro figli; tra l’altro questi erano ormai cresciuti è si erano ambientati, integrandosi, nei paesi di emigrazione.
Oggi la nostra è una sorta di economia assistita, nel senso che vive solo di assistenzialismo: una economia fondamentalmente sul lastrico. Ed allora stante la difficoltà dei nostri amministratori di risolvere una questione che é molto ma molto più grande di loro e che richiederebbe un impegno di forze, ingegno e capacita che francamente non intravediamo. Una cosa ci saremmo aspettata da loro, forse l’unica possibile e capace di dare un segno tangibile verso la città: RINUNCIARE a quella maledetta indennità. Eliminare l’infausto vaso di Pandora, che é la croce e la rovina della politica nostrana. Chi può oggi, al cittadino comune, fugare il sospetto che i nostri amministratori siano mossi nel loro impegno, non solo dalla gloria e dalla ricerca del bene comune, ma anche è soprattutto dalla voglia di intascare quella riluttante ed immorale indennità. Si immorale, perché in un paese dove ci sono concittadini che soffrono, che stentano a sbarcare il lunario, che vivono drammaticamente le gravi difficoltà determinate dalla crisi attuale, rinunciare all’indennità era il meno che ci si potesse aspettare.
Il buon padre di famiglia quando vede che le cose vanno male è il primo a dare l’esempio, a tirare la cinghia, a soffrire con dignità: anche solo per senso di solidarietà nei confronti di chi tribola.
Certo parole al vento le nostre, perché da quell'orecchio nessuno dei signori amministratori ci sente. Se poi consideriamo che il signor Sindaco per i diversi incarichi che ricopre percepisce più di una indennità, il quadro si fa subito chiaro.
Ma vi è una morale in tutto questo; certo che c’è, ed è quella che alla fine Pantalone paga e Pantalone siamo noi tutti cittadini randazzesi.


1 commento:

  1. Solo una cosa breve! Come diceva il grande Principe Antonio De Curtis (Totò) nel film "47 morto che parla".... "E io Pago .. e io Pago!" .
    Però evidentemente queste che potrebbero essere le nostre parole (dei cittadini!)... sono solo "parole" ..appunto solo parole ... i fatti .... "IL VOTO" non sappiamo proprio come si utilizza!!!
    Riflettete Madame e Monsieur alle prossime elezioni riflettete o fate le capre come al solito.

    RsPnSbL_Mnt

    RispondiElimina